CIAO AMORE, VADO A COMBATTERE

È stata una modella. È stata un’attrice. Ora è una combattente. New York, 2008. Dopo una dolorosa rottura con il suo fidanzato, Chantal scopre che l’arte marziale della Thai Boxe è l’unico modo per sfogare la sua rabbia. Vola in Thailandia per alcune settimane, alla ricerca di una via di fuga da quella sofferenza, ma le settimane si trasformano in anni, durante i quali Chantal dai piccoli ring della periferia di Chiang Mai, arriva a combattere sui ring più importanti della Thailandia e del mondo, vince quattro titoli mondiali e sembra finalmente ritrovare se stessa. Presto si accorge che i demoni del suo passato non erano svaniti, ma era solamente riuscita a nasconderli per alcuni anni. Oggi, a un anno dal suo ritiro, ha deciso di tornare in Thailandia per riconquistare la cintura di campionessa del mondo; ma questa volta, per vincere veramente, dovrà affrontare i fantasmi della suo passato. 

2016
Italia, Tailandia
Documentario, Azione, Biografico
Simone Manetti
Chantal Ughi, Andrew Robert Thomson, Anissa Meksen, Benoit Mateu
74min
7,90


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Uno contro uno, la folla che grida il tuo nome, l’avversario di fronte a te. Non c’è scampo, non puoi rimandare, non puoi scappare: devi affrontarlo, una volta per tutte. Chantal Ughi era una modella, un’attrice, una cantante, ma la sua vita apparentemente spensierata nascondeva un passato oscuro. Non bastavano le passerelle, i set cinematografici e i palcoscenici a risolvere quel passato. Ci voleva il ring. È nel Muay Thai, la boxe tailandese, che Chantal ha trovato il modo di affrontare i suoi demoni: trasferitasi in Tailandia, sotto la guida di un maestro locale, al Muay Thai si è dedicata anima e corpo, vincendo quattro titolo mondiali. Ma non le basta, c’è ancora qualcosa da sputare fuori, un’ombra da affrontare, da prendere a calci, precisi e potenti come solo lei sa darne. Chantal torna sul ring, oggi, per riconquistare la cintura di campionessa del mondo; ma questa volta, per vincere veramente, dovrà affrontare il più temibile dei nemici: se stessa.

Muay Thai. Un “filosofia” che può essere estremamente brutale.

Tanti anni fa, circa un  centinaio, la Thailandia donò i suoi natali alla famosa Muay Thai. Non si conosce con certezza come si sviluppò ma si pensa che un’azione determinante l’abbia ereditata dalle arti marziali cinesi. I soldati, con ogni probabilità, la resero loro inserendola nei loro allenamenti militari. La Muay Thai, a volte chiamata anche Thai Boxing, è la precorritrice dell’attuale Kickboxing. Quest’arte marziale pura è uno sport parecchio brutale. Ma le persone che praticano stili meno cruenti apprezzano la preparazione atletica, la resistenza e la forza ottenibili con la sua pratica. La differenza tra la Muay Thai e la Kick Boxing di oggi? È, solo,  poggiata sugli aspetti rituali e filosofici. Cosa bella? L’allenamento in questa disciplina (come in ogni arte marziale) aumenta l’autostima e, soprattutto, la forma fisica. Arrivando ad annientare,addirittura, lo stress.

In Thailandia la Muay Thai è uno degli sport più popolari in assoluto. Viene praticata da uomini e donne allo stesso modo. È uno sport seguitissimo da tutti. Se ti fermi a bere un drink a Bangkok, o a Pattaya, o in qualsiasi altra città dell ex Siam non potrai non vedere un ring con due lottatori, o due lottatrici di Muay Thai. Quasi ogni bar possiede un ring. Prima di ogni combattimento viene suonata una musica,  abbastanza, “stridula” che produce una sensazione acustica acuta e penetrante. Gli sfidanti si cimentano intorno al ring in una danza dai movimenti lenti Chiamata Ron Tnuaf. Il significato di questa danza? Il ringraziamento da parte dei pugili nei confronti degli allenatori e alle scuole di pugilato alle quali appartengono. I lottatori indossano due bende. Una in testa, che dovranno levare prima dell’incontro, e una sul braccio. Quest’ultima contiene un amuleto un piccolo Buddha. E si terrà per tutto l’incontro. Sono entrambe bende sacre. Di buon auspicio. Ancora, prima dell’inizio dell’incontro si inginocchiano e pregano. Tutto quello che fanno come rituale ha un significato. 





Quante metamorfosi un corpo può sopportare, senza lasciarci l’anima? Come si possono cancellare le cicatrici di vite passate, che l’hanno segnato nel tempo? Qual è la strada da intraprendere contro la dittatura dei ruoli prestabiliti, quando il tuo “corpo-immagine” rientra appieno negli attuali canoni di bellezza? Con la sua opera prima Simone Manetti, compie un’interessante ibridazione del film a tema sportivo, infrangendone i confini e restituendo allo spettatore una visione più ampia e non didascalica.

Ciao Amore, vado a combattere è un film fatto su misura, che ci racconta l’incredibile storia di Chantal Ughi. Lei ancora adolescente, intraprende una carriera fatta di viaggi e grandi cambiamenti che la portano dalle passerelle del Giappone ai set cinematografici italiani; dai palcoscenici di un locale underground newyorkese sino a troneggiare sui ring della Thailandia.

Chantal ha uno sguardo malinconico, perso. Immersa nella livida luce delle palestre sfoga la sua rabbia repressa menando pugni, calci, gomitate e potenti colpi di ginocchio sull’addome dell’avversario. Gli allenamenti, così come gli incontri di lotta, si trasformano in lunghe ed estenuanti danze bagnate dal sudore e dalle lacrime. La camera segue gli avversari “a fior di pelle”, si muove insieme ai corpi che volteggiano in incastri, intrecci e prese che tolgono il respiro. Un vortice di corpi che cadono e si rialzano. I luoghi adibiti agli incontri di Thai boxe, sono anche spazi di socialità varia. Alla folla che grida e incita gli atleti si mescolano giocatori di biliardo, avventori da bar o anziani turisti accompagnati da giovani locali.

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DICHIARAZIONE DELLA PROTAGONISTA


Vorrei dedicare questo film a tutte le donne che hanno subito violenza. Vorrei far sapere loro che ci sono modi per combattere il passato e liberarsi, per risorgere dalle ceneri e rinascere. Devono essere consapevoli che potrebbe essere un lungo viaggio: nel mio caso, il viaggio è durato sette anni e ho attraversato e combattuto molte battaglie. Eccomi qui, oggi, con un paio di cicatrici in più, ma se dovessi affrontare nuovamente tutto questo, non avrei neanche un secondo di esitazione. Combattere i tuoi demoni ed emanciparti in una società patriarcale è difficile, ma non è solo un sogno. Nel mio caso include il dolore, dover superare la barriera del dolore. La Muay Thai è un'arte marziale nobile e brutale. Sembra bella e forse facile da fuori, ma questa è pura illusione: a volte c'è sangue dappertutto. La realizzazione di questo film è stata un processo molto doloroso per me. Anni fa, Howard Monath Schwartz, un amico film-maker di New York, passò con me un periodo in Thailandia filmando tutto, voleva realizzare un progetto su di me, ma poi la sua attrezzatura venne rubata da un mio ex fidanzato lottatore, che geloso e rancoroso, vendette le cineprese sul mercato nero, così il progetto rimase incompiuto. Sono così felice di aver incontrato Simone e Alfredo, e che finalmente loro siano stati in grado di dar vita alla mia storia. È stato molto difficile tornare indietro e cercare di vincere nuovamente il titolo mondiale, ripercorrere la mia strada, tornare a guardare negli occhi fantasmi e demoni del mio passato che avevo sepolto e dimenticato, e che ho scoperto essere più forti di prima. Alla fine ho capito che nessun’altra soluzione era possibile: ho dovuto affrontare la mia vita. Questa mia esperienza è fatta di adrenalina, sudore, lacrime, dolore, lividi, solitudine, violenza, pace, fatta di buio e luce, fatta di terra e cielo, fatta di carne, e sì, dell'incredibile emozione di avere la mano alzata alla fine dell’incontro, anche solo per un secondo, prima del silenzio, prima di scivolare di nuovo sotto le corde, in un posto dove nessuno ti conosce, nessuno parla la tua lingua, in un mondo in cui a nessuno importa se sei donna o uomo. Tenete a mente che in quel luogo e in quel momento, ero sola, totalmente persa nella terra della Muay Thai, ma stavo facendo del mio meglio per trovare me stessa

DICHIARAZIONI DEL REGISTA


Nell’ottobre del 2013 una mia amica giornalista mi parlò di una storia affascinante: una ragazza italiana era stata modella in Giappone, attrice cinematografica in Italia, cantante a New York e poi si era trasferita in Thailandia, rivoluzionando la sua vita ancora una volta, diventando campionessa del mondo di Muay Thai, l’antica arte del combattimento Thailandese. Decisi di contattarla, incuriosito dalle mille vite fuse in una sola persona. Purtroppo, mi disse che era tornata in Italia e si era ritirata dal ring, dopo 53 incontri. Rimanemmo in contatto; lei si voleva raccontare, sentiva l’esigenza di dire qualcosa, ed io iniziai a percepire che in lei si nascondesse una storia profonda. Iniziai a leggere i suoi diari, a visionare filmati e fotografie dei suoi anni precedenti; dal periodo trascorso nel locale Nublu Club di New York, dove si esibiva con la sua band, fino ai primi anni trascorsi in Thailandia. In quelle immagini trovavo nuove motivazioni che mi facevano desiderare di raccontare la sua storia: dietro ogni scatto e frame, leggevo, attraverso i suoi occhi, che la verità non risiedeva solamente nell’immagine che avevo di fronte. Quegli scampoli di materiale erano intimi e sinceri, non avevano filtri. Un giorno, Chantal mi chiama: “Torno in Thailandia, e tra un mese combatto a Bangkok davanti alla famiglia reale, per riconquistare il titolo del mondo” Insieme al produttore Alfredo Covelli, col quale fin da subito ho condiviso il progetto, decidemmo di iniziare la produzione rapidamente, e due settimane dopo, ci siamo ritrovati in un campo di addestramento di Muay Thai, con il direttore della fotografia Simone Moglié. È stato un tempo di lavorazione intenso, nel quale Chantal ha ripercorso il suo passato, recente e remoto, affrontando i suoi demoni. Quegli stessi demoni che l’hanno spinta a cambiare vita e a reinventarsi sempre, che l’hanno fatta combattere senza sosta, sia sul ring che nella vita. 

SIMONE MANETTI – NOTA BIOGRAFICA


Simone Manetti nasce a Livorno nel 1978. Si diploma nel 2008 in Montaggio al Centro Sperimentale di Cinematografia. Inizia la sua carriera firmando il montaggio de “La prima cosa bella” di Paolo Virzì, per il quale ottiene le candidature per “Miglior montaggio” al David di Donatello 2010, al Ciak d’oro 2010 e ai Nastri d’Argento. Negli anni successivi firma il montaggio del film “Tatanka” per la regia di Giuseppe Gagliardi, “Mozzarella Stories” di Edoardo De Angelis, “I più grandi di tutti” di Carlo Virzì e di altri film, documentari, campagne pubblicitarie, ed i primi due episodi della serie tv SKY “1992”. Parallelamente, realizza progetti fotografici e reportage per riviste come “Vanity Fair”, “A”, “Asian Geographic” e quotidiani come “La Repubblica” e “L’Unità”. “A New Family”, il suo primo cortometraggio di documentario, girato in Cambogia, è selezionato da BFI London Film Festival, Reykjavík International Film Festival, Camerimage e molti altri Festival Internazionali; riceve le candidature ai Nastri D’argento, vince il Premio Amnesty International per i diritti umani, e la Menzione Speciale al festival Arcipelago. “Goodbye Darling, I’m off to Fight / Ciao Amore, vado combattere” è il suo primo lungometraggio di documentario

L'INTERVISTA


Modella, attrice, combattente, poi di nuovo attrice: sei una donna dai mille talenti. Essere dotata in campi così diversi tra loro, pensi abbia rappresentato un problema? È stato difficile trovare la tua strada?

In parte sì, perché il mondo di oggi sembra premiare la specializzazione. D’altro canto, il saper fare multitasking mi ha aiutato. Sia nel lavoro d’attrice o di modella sia in quello di lottatrice, bisogna saper gestire il corpo in scena: nel primo caso è un palcoscenico, nel secondo è un ring.

Com’è nato il film con Simone Manetti? Goodbye Darling, I’m off to fight è un documentario che copre un certo numero di anni, anche se apparentemente racconta dell’ultimo sforzo per riconquistare il titolo mondiale: com’è stato possibile realizzarlo?

Ho conosciuto Manetti per caso - nel 2014 - e si è interessato alla mia storia. Avevamo a disposizione materiale d’archivio di un regista americano che non l’aveva mai utilizzato. Inoltre, io stessa ho sempre fatto riprese per il mio archivio personale, per documentare la mia vita in Thailandia e i combattimenti.

Quando sei partita per la Thailandia, la prima volta, praticavi già Muay Thai? Cosa ti aveva spinto verso questo sport?

Ho cominciato attorno ai 21 anni, sentivo il bisogno di avvicinarmi ad un’arte marziale. La boxe thailandese mi piaceva a livello estetico, andava bene per tenermi in forma ma soprattutto mi serviva per liberare la mente. Gli allenamenti e la disciplina erano molto pesanti e dolorosi ed era quello che mi serviva in quel momento della mia vita. Quando ho deciso di lasciare New York per allontanarmi dal rapporto malato che si stava instaurando con il mio fidanzato, la Thailandia mi sembrava una buona meta di viaggio.

È uno sport che consiglieresti alle ragazze come te?

Consiglierei di praticarlo fin da bambine. Aiuta ad avere fiducia in se stesse, è una valida autodifesa ed è perfetto per perdere peso se è necessario. Bisogna avere disciplina ma non toglie la femminilità anche se il corpo si rafforza molto. Le ragazze sono particolarmente brave ed eleganti, perché è uno sport che premia l’elasticità, la flessibilità e la velocità.

Cosa ti deve scattare dentro per andare a combattere?

Per me è stata una sfida con me stessa e una catarsi per superare i miei fantasmi, derivati anche da un rapporto difficile con mio padre. Volevo vedere se riuscivo a combattere. Poi c’è la parte mistica legata al buddismo che è presente in Thailandia ma che è difficilmente compresa dagli occidentali. La Muay Thai prevede una pratica giornaliera ferrea, meditazione e una vita semplice. Un incontro è composto anche di rituali, come la danza propiziatoria sul ring, che addirittura non viene eseguita da molti europei.

Com’è il mondo della Muay Thai femminile? Le donne sono rispettate o le combattenti sono considerate di serie B come accade in altri sport?

Fino a una decina d’anni fa, le donne non potevano combattere e tuttora il combattimento femminile è vietato nello stadio principale di Bangkok . Prima di ogni combattimento, il ring viene benedetto dai monaci e teoricamente le donne portano sfortuna, tant’è che non possono scavalcare le corde ma devono scivolare sotto di esse.

Oggi è un bellissimo spettacolo, a volte esasperato nel suo lato estetico come nel caso dei reality show delle Muay Thai Angels, che devono essere non solo brave ma anche molto carine e sempre truccate.

Spesso gli stranieri che vengono ad allenarsi stanno cercando qualcosa. Ora sta arrivando anche una buona percentuale di ragazze e gli incontri sono sempre più apprezzati. Io ho potuto combattere anche davanti alla al re a e alla regina in occasione delle celebrazioni per i loro compleanni.

Dopo quattro titoli mondiali, hai deciso di ritirarti. Poi, a distanza di un anno, sei tornata per tentare di riconquistare la cintura di campionessa del mondo. Cosa ti ha spinto a ricominciare?

Mi ero fatta male e avevo bisogno di tempo per guarire ma ero anche stanca. Combattere stava diventando un po’ un lavoro mentre io non volevo essere obbligata. Avevo bisogno di ritrovare la passione.

Nel film si parla anche del rapporto burrascoso con la tua famiglia: è stato difficile coinvolgere i tuoi genitori ed affrontare i fantasmi del passato?

Confrontarci è stato catartico ed è servito in qualche modo a riavvicinarci. Simone Manetti ha portato avanti le interviste separatamente e nessuno di noi sapeva cosa avrebbe detto l’altro. I problemi erano rimasti chiusi in un armadio per molto tempo e con il documentario, in qualche modo, per me si è chiuso il cerchio.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Per il momento sono stata invitata a insegnare ai bambini in Qatar. Un giorno vorrei aprire una palestra mia, dove collezionare le mie coppe e le cinture e dove insegnare la boxe thailandese alle donne.

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