L’HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI

Maria e Richard sono sposati da vent'anni. Una sera lui scopre che lei ha un amante: si tratta di un suo studente dell'università. Non valgono a nulla le motivazioni che Maria adduce. Richard è sconvolto. Lei decide allora di lasciare il domicilio coniugale senza andare però troppo lontano: la stanza numero 212 dell'hotel di fronte a casa. Da lì può avere una visione a distanza sul consorte e sul suo matrimonio. Ma non sarà sola in questa riflessione.

Anche in questa occasione, intendiamoci, non opta per una sceneggiatura lineare ma ora ogni variazione risulta motivata. Perché non appena Maria si installa nella stanza di hotel di fronte all'appartamento dove Richard non riesce a dormire per il tormento che lo ha assalito nello scoprire il tradimento della moglie, si materializza accanto a lei...Richard. Sì proprio lui ma com'era quando lo aveva incontrato, innamorandosene, due decenni prima. Da quel momento prendono corpo (nel senso anche più sessualmente completo del termine per Richard) e anche parola diverse persone che hanno incrociato il loro percorso con lei nonché la 'fiamma' che già in fase puberale aveva acceso Richard.

Honoré si diverte così a rendere fisici e materiali i ricordi che ognuno di noi può avere, mettendoci di fronte a una commedia brillante e ricca di colpi di scena ma anche a una riflessione sul divenire. Sarà anche vero, come affermano i nutrizionisti, che siamo ciò che mangiamo ma siamo anche (soprattutto?) ciò che abbiamo vissuto. Anche quando pretendiamo di potercelo lasciare alle spalle o di trattare le persone con cui abbiamo avuto una relazione come eventi che non lasciano traccia stiamo solo cercando di ingannare noi stessi.


2020
Francia
Commedia
Christophe Honoré
Chiara Mastroianni, Vincent Lacoste, Camille Cottin, Benjamin Biolay, Stéphane Roger, Harrison Arevalo, Carole Bouquet
86min
3,90


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«L’amore presente è contraddittorio perché si costruisce in un angolo della memoria. […] È dal passato che facciamo risorgere la certezza dell’amore»

Chiara Mastroianni e la madeleine per i cuori disillusi


Come può una relazione lunga venticinque anni resistere all’usura del tempo? Secondo Maria, la protagonista de L’hotel degli amori smarriti, l’unico rimedio è il tradimento. Qualche piccolo svago sessuale, come lo definisce lei, è un buon compromesso per salvare un matrimonio. Peccato però che non la pensi così suo marito Richard. Perciò quando la coppia sembra sul punto di cedere di fronte al peso di «qualche capriccio», a Maria non resta che rifugiarsi nell’hotel di fronte a casa per schiarirsi le idee.

Quello che la donna non sa è che quella sarà una notte straordinaria e surreale perché nella sua stanza, la 212 (come l’articolo del codice civile francese che recita: «I coniugi hanno l’obbligo di mutuo rispetto, il dovere di fedeltà, soccorso e assistenza») si affolleranno i fantasmi del suo passato. Magnifiche presenze, fra cui spicca il 25enne Richard (Vincent Lacoste) che l’ha fatta innamorare anni prima, pronte a dialogare con Maria di ciò che è stato per capire il presente e immaginare un nuovo futuro.




(più Hitchcock che Ozpetek)


Dalla finestra – da uno spiraglio fra le tende – Maria spia la sua casa e il marito che la abita. Guarda il suo matrimonio. Quello che è stato, quello che è diventato, quello che avrebbe potuto essere. E a poco a poco i suoi pensieri si materializzano: quella camera d’hotel è una stanza-cervello. Se lei pensa a suo marito quando era giovane, ecco che subito lui le appare davanti ventenne. E allora a poco a poco capiamo che quel luogo, quel dispositivo di luoghi (l’appartamento, la stanza d’hotel di fronte, la strada che li separa) è la materializzazione o la visualizzazione dell’inconscio. La macchina scenica che il regista Christophe Honoré e il suo scenografo Stéphane Taillasson hanno immaginato lascia davvero a bocca aperta: la macchina da presa si inerpica sopra le stanze e inquadra dall’alto, a filo di piombo, i letti e i corpi che vi giacciono, ma poi scivola sopra le pareti che separano le stanze dell’appartamento, come se fossimo in una casa di bambole, o in un dispositivo teatrale. Un luogo dichiaratamente funzionale, insomma, dove quello che siamo soliti considerare reale si sospende per lasciar irrompere un’altra realtà: quella dei fantasmi mentali con cui conviviamo ogni giorno, spesso più ingombranti e determinanti delle persone “reali”.

Così i personaggi si sdoppiano: il marito com’è oggi si ritrova accanto al marito com’era vent’anni prima. Perché le persone cambiano. E perché il cambiamento è uno dei fattori che determinano la fine o la crisi degli amori (“Non avrei mai immaginato che saresti diventata così vecchia e così odiosa”, dice Richard a Maria). Ma nel teatro/stanza/appartamento si materializzano anche altri personaggi del passato di lei e di lui, compresa la matura insegnante di pianoforte che lui aveva amato prima di conoscere Maria. I ricordi si affollano, i rimpianti riaffiorano, le illusioni rinascono. E il cinema respira a pieni polmoni. Perché è cinema puro quello in cui ci accompagnano regista e scenografo: con la macchina da presa che inquadra dall’alto la strada innevata su cui si affacciano sia l’hotel che l’appartamento e poi sale sui tetti per farci ritrovare lui e lei, giganteschi, che si guardano, uno di qua e l’altra al di là della strada, e poi scivola di nuovo giù, sui marciapiedi innevati, e si lancia in un camera car che ci consente di vedere i manifesti dei film che si proiettano nel cinema a 7 sale che sta proprio sotto la casa

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L’hotel delle occasioni perse


Scene da un matrimonio alla maniera di Christophe Honoré: livelli temporali come scatole cinesi, identità multiple quante sono le epoche evocate, metamorfosi in scena. Maria lascia la casa in cui vive col marito Richard dopo una discussione relativa a un suo amante e per una notte dorme nell’albergo che si trova sul marciapiede opposto a quello del suo condominio (l’hotel è un luogo cruciale della filmografia e della drammaturgia dell’autore). La finestra della sua camera (la 212, come il numero dell'articolo del codice civile francese sui doveri reciproci dei coniugi, tra cui quello di fedeltà) è un punto di vista privilegiato: le permette di guardare - come su un grande schermo - il suo appartamento, la sua vita, il suo matrimonio e la crisi che lo attraversa [1]. E la camera d’albergo è un palcoscenico, un teatro mentale, in cui i suoi pensieri si incarnano, prendono vita e determinano un impietoso confronto tra ciò che si era, ciò che si è, ciò che si poteva diventare: il presente e un passato, anche alternativo, che apre il ventaglio alle mille differenti narrazioni che avrebbero potuto accompagnare il cammino di questa coppia (e aprendosi al riflesso metatestuale: Chiara Mastroianni e Benjamin Biolay sono nella realtà due ex coniugi)
Maria, che colleziona amanti giovani (sovversione evidente del modello della commedia matrimoniale che attribuisce all’uomo il ruolo avventuroso e farfallone) perché cerca in loro il Richard che ha conosciuto all’inizio, si incontra con il marito en plus jeune: crescendo, invecchiando, si cambia e si diventa qualcun altro (così il Richard attuale non riconosce il Richard giovane di cui, naturalmente, è geloso).

Con la consueta libertà e quel disordine creativo che contraddistingue ogni sua opera, il regista ci offre una delle riflessioni cinematografiche più lievi e appuntite sulla durevolezza dell’amore, sulla corruttibilità del corpo e sull’appassire del desiderio nel legame tra due persone. Sulla selva di dubbi che il sentimento (e il suo venir meno) deve attraversare per tradursi infine in una scelta di vita. Se Marriage Story di Baumbach guardava al confronto tra i coniugi su un piano di realismo drammatico, Honoré preferisce battere la strada della deviazione incantata, fantastica. Partendo dagli stessi presupposti (Allen, Bergman), ma prediligendoli nella loro declinazione più psicanalitica e metafisica

Il risultato è quello appassionante, suggestivo, che seduce cuore e intelletto, tipico del regista: con la sua lunga coda musicale che accompagna la scelta realistica (e di libertà) della protagonista che rinuncia al passato e abbraccia il presente. Così Could It Be Magic di Barry Manilow, è usata, come sempre fa il regista con i brani di repertorio, come una sorta di didascalia rivelatoria, allo stesso modo di quella dei titoli finali (How Deep Is Your Love? dei Rapture è un interrogativo che vale per tutti, personaggi e spettatori).

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La stanza delle meraviglie


La camera 212 è una stanza delle meraviglie, un portale che mette in comunicazione passato e presente, un luogo della mente, dei sentimenti e delle emozioni in cui ogni cosa è possibile: la realtà, l’immaginazione e il sogno, tutti nello stesso momento. Per Maria è l’occasione di parlare, confessare, riflettere e dire a chi la circonda quello che non ha mai detto. Ma anche l’opportunità per guardare le cose con più attenzione, lasciando che il cinismo e l’ordine che hanno preso a dominare la sua vita (e che il marito le rimprovera) e quel mondo dove «due più due fa quattro, fine!» nel quale vive, vengano messi in discussione. L’amore, il sesso, il desiderio, le pulsioni elementari e i bisogni più adulti, i rapporti con gli altri e con se stessa costituiscono la materia con cui Maria si misura per provare a capire – attraverso la crisi del proprio matrimonio – il sottile rapporto fra ciò che è e ciò che vuole essere.

È un’introspezione leggera come la commedia quella di Honoré, eppure mai banale, facile o eccessiva. Temi come la difficoltà delle relazioni, la crudeltà del tradimento e l’egoismo sentimentale si misurano su elementi contingenti come lo scorrere del tempo, la noia della routine e il bisogno di evasione che tutti proviamo. E proprio perché non esistono risposte – e nemmeno il finale, aperto, assicura un completo happy end – il racconto è affidato alla mistificazione della scrittura e della messinscena. Honoré dà vita a un’opera che non si misura in nessun istante con il dato di realtà o la verosimiglianza (nemmeno nel messaggio), ma come nei film di Woody Allen spinge sui tasti dell’astrazione e di un cinema che non imita la vita, ma la riduce a un bozzetto o un’ipotesi esistenziale su cui innestare riflessioni al di là (o al di qua) della narrazione. Quasi un locus letterario in cui i personaggi agiscono e pensano in maniera non ordinaria. E non è un caso che il film sia ambientato a Montparnasse, dentro una Parigi onirica, affascinante, inconsueta e ammantata dalla neve – che ricorda quella di Cuori (2006) di Resnais – e che è allo stesso tempo dinamica, cangiante e colorata. Come un sogno.

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