«Cosa resta della rivoluzione è nato dal mio desiderio di confrontarmi per l’ennesima volta con l’ingombrante totem rappresentato dal maggio del ‘68, ingombrante perché ogni volta che nasce un movimento di contestazione, sembra lo si debba sempre per forza confrontare con il maggio francese. Come se non fossimo autorizzati a reinventare modelli di impegno politico perché sembrano sempre al di sotto di quelli nati in quel periodo»
La ragazza, che ha scelto di fare l’architetto urbanista per «migliorare la vita della gente cambiando i luoghi in cui vive», viene licenziata dal suo capo (anche suo ex professore ed ex sessantottino), per essere sostituita da una stagista disposta a lavorare gratis. Alla marea di chiacchiere ipocrite che le vengono ammannite durante il colloquio per indorare la pillola, Angèle si ribella, rinfacciando al suo capo di far parte di una generazione di “orchi”, che si è mangiata la generazione successiva per conservare il proprio potere, al tempo stesso proclamando ideali progressisti che si guarda bene dall’applicare nella realtà. Angèle conclude così la sua furiosa invettiva: «Continuate a progettare centri commerciali, per pagarvi la villa al mare!». La condanna di una sinistra che si è non solo venduta al mercato per così poco ma se ne è anche resa complice sembra riecheggiare una battuta fulminante di Orson Welles su quanto fosse triste che, al tempo del maccartismo, i cineasti di sinistra che avevano tradito l’avessero fatto, sostanzialmente, per salvaguardare le loro piscine.
Più sommessa, ma ugualmente presente, la critica alla classe politica odierna (non solo in Francia) che sembra concentrarsi più sull’uso di terminologie specifiche e sulla dialettica che sui fatti. Congeniale, in questo senso, l’uso della macchina da presa che rimbalza da un volto all’altro dei partecipanti al collettivo, come fosse lo sguardo attonito ed incredulo dello spettatore che assiste ad una discussione che ha dell’assurdo.
E’ l’unico personaggio ad essere proiettato verso il futuro. Non a caso è un educatore e svolge il suo lavoro con i bambini con passione ed impegno, dedicando loro la maggior parte del suo tempo.
Sarà proprio lui a far cambiare prospettiva ad Angèle che, per la prima volta, guarderà con occhi nuovi inizialmente la sua famiglia, intesa qui come primo nucleo sociale in cui ci si confronta, e poi mano a mano la realtà che la circonda.
La giovane si rende quindi conto che suo padre è un inguaribile nostalgico, che sua madre è una donna sola alla ricerca di tranquillità e che sua sorella, apparentemente soddisfatta della sua vita agiata, è in realtà sull’orlo di una crisi di nervi risentendo anche delle forti pressioni lavorative del marito.
Ecco allora che il giudizio impietoso di Angèle su questi tempi moderni piegati al “Dio Denaro”, senza spazi fisici per incontrarsi e parlare (quelli che da urbanista vorrebbe creare lei), si fa più morbido e, pur restando fedele ai suoi principi, trova (finalmente!). Anche il tempo di innamorarsi
I primi cinque minuti di Cosa resta della rivoluzione sono un manifesto generazionale (ma anche di due, magari tre generazioni), un’esplosione di rabbia, un grido d’aiuto. Angèle, la protagonista, ha trent’anni, ma sfortunatamente è nata troppo tardi, come dicono i sessantottini che rimpiangono “l’epoca del noi” in cui “creavamo il mondo” e “aprivano tutto”.
Difendere prima i lavoratori e poi il lavoro. E’ il nodo cruciale sul quale si è sgonfiata la maggior parte delle sinistre europee negli ultimi trent’anni. La prima scena di Cosa Resta Della Rivoluzione fotografa perfettamente l’imbarazzo della classe dirigente progressista di fronte al licenziamento di Angele (Judith Davis), giovane promettente urbanista vittima dei tagli del capitalismo new age. Le si preferisce uno stagista schiavizzato e sottopagato: di fronte alla rabbia di Angele (“ci avete divorato, eravamo buoni? La figura chiave della vostra generazione è il pedofilo!”) non resta che chinare il capo. Dove sono i sogni del 68, dove sono le utopie rivoluzionarie degli anni 70, dov’è finita la voglia di cambiare il mondo? La famiglia è una istituzione borghese che trasforma i desideri di una società più giusta in frustrazioni di arrampicatori sociali che vogliono passare a un livello superiore di benessere. Simon (Simon Bakhouce), il padre di Angele, dagli astratti furori comunisti è passato alle ricette di cucina; la madre Diane (splendida Mirelle Perrier) attivista e anarchica si è ritirata in campagna arrendendosi alla politica di privatizzazione di Jospin; la sorella Noutka (Melanie Bestel) si è incistata in un ménage familiare claustrofobico sposando il reazionario Stephane (Nadir Legrand) che giudica le persone dalla produttività. Tutti rinchiusi in un bozzolo di seta egoistico, poco aperti ad accogliere i pensieri altrui, poco disposti a privarsi del superfluo per donarlo a chi è più sfortunato. Angele legge l’elegia del perdente di Walt Whitman entrando in una banca e viene naturalmente presa per pazza. In un rigurgito di lotta di classe disegna il dito medio sui poster della generazione Prozac o sui bancomat. L’amica Leonor (Claire Dumas) fa la scultrice e per sopravvivere vende calchi di piedini di neonati (“L’impronta eterna del vostro bambino”); il preside di scuola Said (Malik Zidi) stupisce il collettivo di disoccupati recitando ad alta voce i versi di Allen Ginsberg che glorificano il corpo e la gentilezza dell’animo.