1968. Il filosofo, poeta ed ex partigiano Aldo Braibanti viene processato e condannato per avere plagiato il ventunenne Giovanni Sanfratello. Nell'anno in cui si aveva il culmine di un percorso di rinnovamento e di liberazione l'Italia assisteva a un rinnovato processo alle streghe.
In un mondo che tende all'amnesia politica e sociale ogni giorno di più non è solo importante ma addirittura necessario che ci sia chi, come Giardina e Palmese, tolga qualsiasi alibi all'oblio riproponendo vicende che i meno giovani hanno vissuto e dovrebbero (il condizionale è d'obbligo) ricordare e che i giovani hanno il diritto di conoscere.
A favore dell’accusato si espressero Marco Pannella, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Umberto Eco che seguirono e commentarono aspramente il processo. E soprattutto Elsa Morante, “che non dormiva” sapendo Braibanti e Sanfratello in quelle condizioni (le presta la voce la stessa Giardina, sottolineando quanto della vicenda la scrittrice degli ultimi sia in un certo senso la narratrice segreta).
Nel restituire quello che da molti è considerato il corrispettivo italiano del processo contro Oscar Wilde, Palmese e Giardina si sono serviti di tre modalità. Testimonianze di chi c’era e lo conosceva bene (tra gli altri, il nipote Ferruccio Braibanti, Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel, Dacia Maraini, Maria Monti), documenti d’epoca (foto dell’archivio di famiglia, i video d’arte inediti girati da Braibanti, i film sperimentali di Alberto Grifi, le registrazioni di Radio Radicale) e ricostruzione teatrale con attori che rievocano la vicenda.
"Chiedo una pena esemplare - concluse in crescendo il pm Antonio Lojacono - affinché nessun "professorucolo" domani possa venire a togliere la libertà a un innocente". Dalla gabbia degli imputati, Aldo Braibanti, l'unico imputato ritenuto colpevole del reato di plagio nella storia giudiziaria italiana, si limitò a deglutire alzando il capo.
«Il caso Braibanti fu uno dei terreni di scontro fra le forze allora in campo, la contestazione ai valori dominanti e la reazione a chi si sentì messo in discussione. Era la reazione istintiva e violenta di un’Italia benpensante contro ogni anticonformismo e in particolare contro il fantasma dell’omosessualità».
Nel 1968 Aldo Braibanti fu processato per plagio. «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». Così recitava l’articolo 603 del codice penale. Fascista. Era stato il legislatore fascista a introdurre per la prima volta il reato di plagio, e ancora nel 1961 la Corte di Cassazione si era espressa in merito, definendolo: «L’instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo». Era un terreno scivoloso, questo del rapporto psichico. Tanto scivoloso che in realtà non era mai stato usato, quell’articolo del codice penale. Lo usarono per Aldo Braibanti, che – lo si vede nel film – anni dopo in un’intervista disse: «Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale». Quello, quindi, fu un processo politico. Come dice nel film il nipote Ferruccio: «Fu un processo a una condizione di vita che non poteva essere accettata da una cultura clericale, perché veniva messa in discussione non la famiglia ma l’autorità della famiglia, non lo Stato ma l’autorità dello Stato».