Tratto da un libriccino di Justin Torres che nasce da un'esperienza di
vita vera, il film dello statunitense Jeremiah Zagar ha come
protagonisti tre fratelli portoricani Manny, Joel e Jonah, che vivono in
una zona arretrata degli Stati Uniti chiamta Utica. La storia tratta
della loro complicità e del rapporto con i loro genitori: un affetto
spesso interrotto da litigi furibondi, dagli abbandoni e dai rientri di
un padre impulsivo e manesco, e con tutte le ripercussioni che ciò ha
sull'equilibrio di famiglia in casa. I bambini si fanno strada nella
loro infanzia, ma Jonah rispetto ai suoi fratelli crescendo incomincia
un suo percorso personale che si distacca dall'ideale mascolino
incarnato dal padre e insegue la definizione di una sua sensibilità,
aprendosi a ciò che sente. Un cammino che si preannuncia più impervio - e
più appartato - ma sicuramente più libero.
Sono due le storie che si intrecciano in Quando eravamo fratelli. Da un lato, quella corale di una famiglia apparentemente perfetta ma in realtà lacerata al suo interno, con tre giovani fratelli, Jonah, Manny e Joel, costretti a cavarsela da soli di fronte alle mancanze dei genitori; dall'altro quella più introspettiva dello stesso Jonah (Evan Rosado), il più piccolo dei fratelli, ma anche il più ricettivo verso il mondo, il più sensibile e bisognoso di una via di fuga dalla propria vita.
Tutto si svolge nella periferia dello stato di New York, negli anni '80: una casa isolata, immersa nel verde al limitare di un bosco, come in una bolla (nente vicini, amici, parenti o interazioni umane di sorta), uno scenario da favola sottolineato dall'uso del 16mm, da una regia dolce, poetica, che indugia sulla natura, sui suoi suoni e i suoi riflessi di luce, e che tanto (forse troppo) ricorda quella di Malick.
Eppure, nella fiaba qualcosa s’incrina. We the Animals è il titolo originario del film, diretto da Jeremiah Zagar e tratto dall'omonimo romanzo di Justin Torres: «Noi, gli animali». E Jonah, Manny e Joel sono quegli animali. Non solo perché alla costante, bramosa, primitiva ricerca di “qualcosa in più” «we wanted more», dichiara più volte, quasi in una litania, il protagonista, con una voce sussurrata fuori campo che ancora una volta rimanda a film come The Tree of Life), non solo perché abituati a correre e gridare indisturbati nel verde del paesaggio in cui sono cresciuti, ma anche perché – proprio come le bestie – costretti, spesso, a fare “branco”.
Un trio perfetto, che ragiona, attacca e agisce sempre unitamente, che si procaccia il cibo (anche se sono dolcetti), che si mostra “grande” e capace di stare al mondo attraverso le scorribande (come le guerre di sassi contro le auto). Nessuno pensa a loro, nessuno li accudisce, nessuno li punisce quando sbagliano. Eppure i tre fratelli non sono orfani; hanno un padre e hanno una madre. Una coppia dissestata, in perenne disequilibrio, in costante oscillazione tra la lite furiosa e violenta – e i lividi e il sangue che ne conseguono – e un amore passionale, fatto quasi esclusivamente di carnalità (moltissime le scene in cui li vediamo seminudi).
Ma il “branco”, nella forza del sostegno reciproco, ha nel tempo imparato a fare fronte anche a questo, anche alle fratture di quella stessa famiglia da cui proviene. Quando allora Paps farà ritorno a casa, dopo aver lasciato la città in seguito all'ennesimo litigio, e dopo aver abbandonato Ma in uno stato depressivo che non la fa neppure alzare dal letto, i tre fratelli troveranno nell'animalità della violenza fisica il modo per sfogare una rabbia e un'impossibilità tutta emotiva: quel gioco iniziato come una “guerra” al solletico, finirà per rivelarsi una vera “guerra” di schiaffi contro l'uomo che per troppe volte ha disatteso le loro aspettative. Eppure, come chiosa nel finale lo stesso Paps, i suoi figli finiranno per essere esattamente come lui, figure cresciute a immagine e somiglianza dei suoi errori, fotocopie delle sue mancanze, incastrate inesorabilmente in una realtà che non li soddisfa, che non funziona e di cui tutti – consapevolmente – riconoscono le incrinazioni più dannose (del resto il padre accetta le botte dei figli passivamente, quasi come a sapere di meritarle).
Due storie, si diceva però. Ecco allora che per Jonah, il minore dei tre, di soli nove anni, la maturazione, il passaggio all'età adulta in questo coming of age sarà, al contrario che per Manny e Joel, un percorso compiuto, non spezzato dalle abitudini di un milieu viziato. Il suo finale, aperto, con un volo immaginario alla Peter Pan sul bosco, con la trasposizione del mondo in un disegno, sarà il solo a essere positivo.
Ed è proprio questa sua fantasia, questa sua creatività a rappresentare la sola via di fuga da un mondo che, molto più che ai due fratelli, va stretto a Jonah: è negli scarabocchi arrabbiati, passionali e poco definiti in cui Jonah ripone paure ed emozioni – e che prendono vita grazie alle animazioni di Mark Samsonovich – che avviene la trasposizione di un possibile “qualcos'altro”. Del resto Jonah si sente diverso dai suoi compagni di “branco” su molteplici fronti, come suggerisce l'uso dell'imperfetto nel titolo italiano: ne è fratello di sangue, ma non più per vicinanza esperienziale ed emotiva.
Lui, da quel traumatico bagno nel lago, ha scoperto una chiave di lettura nuova e diversa della vita; aprendo gli occhi sott'acqua, li ha aperti anche sulla realtà in superficie. Lui, da quell'incontro con il biondo figlio del contadino diventato ben presto suo amico, ha notato in sé una sessualità differente, che lo spinge verso il suo stesso sesso, benché, certo, ancora acerba e del tutto priva di consapevolezza.
Quel che rende tanto intenso Quando Eravamo Fratelli – We the Animals è il suo condensare per immagini un vero trattato di psicologia infantile, mentre gli eventi si alternano a momenti onirici e si susseguono «come rivissuti come un sogno febbricitante attraverso i ricordi di un bambino; un ricordo ri-ricordato; un ricordo sintetizzato e contestualizzato», come ci ha sottolineato Jeremiah Zagar quando l’abbiamo intervistato. È proprio questa scelta prospettica, insieme all’ottimo materiale di partenza e alla straordinaria direzione dei tre bravissimi giovani attori, a fare di Quando Eravamo Fratelli – We the Animals una pellicola capace di ricavarsi uno spazio nel cuore dello spettatore. Un film ‘caldo’ per la sua natura emozionale e anche per il supporto adottato da Zagar, che ha girato su celluloide in Super 16mm; un flusso di coscienza che concorre a delineare il bagaglio emotivo di un giovane uomo intenzionato a liberarsi dai vincoli del proprio passato.
La sceneggiatura firmata da Zagar con Daniel Kitrosser, che ha visto anche il contributo (non accreditato) dello scrittore Torres e che è stata poi limata con l’aiuto del Sundance Insitute Script Lab, parte da una prospettiva corale e, col progredire della storia, fa progressivamente coincidere il punto di vista principale con quello di Jonah. A coincidere con il punto di vista del bambino è anche la macchina da presa, che con uno sguardo di straordinaria naturalezza (collocato ad altezza di bambino) ci restituisce la visione del mondo confusa e incredibilmente emotiva di un ragazzino di 10 anni, mentre un montaggio fluido e i molti voiceover sussurrati non possono non riportare alla mente il meraviglioso The Tree of Life di Malick.
I punti in comune con il lavoro del regista di Ottawa sono molti ed evidenti, tanto che Quando Eravamo Fratelli – We the Animals per un po’ sembrerebbe seguirlo quasi come una copia carbone, ma a dire il vero la storia è semplicemente quella del libro – uscito in contemporanea con il film con Pitt e la Chastain – e pertanto ogni dubbio circa un’eccessiva somiglianza è più che infondato. Pur partendo da molte idee affini (il rapporto conflittuale con i genitori, la storia di tre fratelli, un fluire indistinto del tempo), il film procede in una direzione peculiare, che suggerisce a più riprese lo sviluppo dell’identità sessuale del protagonista – anche tramite il ricorso all’espediente dei disegni di Jonah – e che riflette sulla replicazione da parte dei figli dei modelli comportamentali violenti del padre.
Quando Eravamo Fratelli. All’inizio fu il romanzo d’esordio di Justin Torres, pubblicato in Italia da Bompiani con il titolo Noi, gli Animali. Un debutto folgorante che nel 2011 mise d’accordo critica e pubblico con il racconto di tre giovani vite difficili: quelle di tre fratelli che affrontavano un’infanzia complicata coalizzandosi tra loro e diventando sempre più ostili verso il mondo esterno.
Manny, Joel e Jonah sono tre fratelli sui 10 anni, tre ragazzini di padre portoricano e madre americana che vivono in una zona rurale – un contesto tutto sommato piuttosto piacevole. La spensieratezza fatta di aquiloni e corse nei campi però è destinata ad essere presto adombrata dal comportamento discontinuo dei genitori problematici, che tra una separazione e una riappacificazione, tra violenza domestica e gesti d’affetto, finiscono per pensare più a se stessi che ai figli. A tratti abbandonati al proprio destino, i tre giovani protagonisti finiranno per dover imparare troppo presto a badare a se stessi, diventando progressivamente tre ‘animaletti’, tre bambini affettuosi ma problematici che finiscono per sfogare la propria frustrazione con piccoli furti e atti vandalici. Quando uno dei tre inizierà a rendersi conto della propria omosessualità, qualcosa si romperà e quell’affiatamento cederà il posto ai primi passi verso l’età adulta.
Zagar vincitore nel 2009 del Biografilm Festival con il documentario, nonché opera prima, Into a Dream, dopo l'ottimo riscontro ottenuto dalla critica al Sundance Film Festival presenta all'edizione 2018 del Biografilm il suo secondo lungometraggio di finzione. Il film è la storia di un ricordo e in qualche modo ci dice che noi ricordiamo anche attraverso i media con cui siamo entrati in contatto, ne siamo influenzati.
Il regista è legato ai ricordi dei video 35mm o 16mm, in technicolor, mentre ora è tutto pulito, nitido, digitale. We the Animals
invece è girato in pellicola 16mm, che con la sua grana spessa
conferisce all'ottima fotografia un senso materico e di calore alle
bellissime tinte delle albe, dei tramonti o della luce del sole che
filtra dalle finestre e solca in maniera delicata i visi dei bambini.
Questa luce suggestiva e avvolgente, insieme al lirismo dilagante e
all'intimità (i sussurri, il ricorso frequente ai primi piani) che
pervadono il racconto, così come i movimenti di macchina liberi e
sinuosi, avvicinano questo film allo stile etereo di Terrence Malick.
Il lungometraggio è realizzato con una tecnica mista: riprese dal vero
che si alternano a sequenze di animazione, nello stile delle riprese a
passo uno. Ovvero, disegni su carta fotocopiati e ripetuti per circa
6500 disegni. Con la camera a spalla, Zagar riprende spesso in mezzo
alla scena, fra i personaggi. C'è una forte empatia, quasi
partecipazione, immedesimazione. La macchina da presa è sempre in mezzo.
Non li perde mai di vista. Addirittura, rompe i confini della diegesi
cinematografica e viene afferrata da uno dei bambini.
La vitalità e la creatività sono al centro di questo racconto sul
rapporto fra crescita e sofferenza. Il piccolo Jonah ne è il principale
portavoce: l'arte spesso è adoperata da lui come valvola di sfogo, come
luogo in cui nascondersi, unico momento in cui sentirsi veramente
liberi.