Kim Ki-duk vive da solo in una disordinata casa di campagna al cui interno ha installato una tenda in cui dorme. Ha lasciato il cinema dopo che, nel corso delle riprese di Dream la protagonista ha rischiato di morire impiccata. Ora Kim vive una vita di afflizione lontano dal set in cui per lui urge il bisogno di riflettere sul senso del fare cinema. Decide allora di riprendere se stesso realizzando così una lunga dichiarazione in cui si mette totalmente a nudo.
Kim Ki-duk, il prolifico regista sudcoreano che ha realizzato 15 film in 13 anni ottenendo prestigiosi riconoscimenti a Venezia, a Cannes e a Berlino, era scomparso da 3 anni. Le voci lo davano come malato e comunque ormai fuori dalla produzione di film. Stava invece realizzando questa disperata confessione che è al contempo una richiesta di aiuto. Con il solo supporto di una camera digitale Kim mette in scena tutto il suo travaglio interiore. Il termine 'messa in scena' è quello che maggiormente si addice a questo film che documenta il precipitare di un'artista nella depressione più cupa. Perché la telecamera rivela l'artificio di alcune scene (campi e controcampi in primis) ma è anche utilizzata per riprendere lunghi e drammatici sfoghi del regista. Il quale urla a se stesso e dalla Croisette al mondo, ("Dormivo. Cannes mi ha risvegliato" come ha detto dinanzi a un pubblico commosso quanto lui) l'urgenza di comprendere fino in fondo la vita e la sua rappresentazione giungendo alla pessimistica conclusione che il nostro passaggio sulla terra non sia altro che una commistione di sadismo, masochismo e autoflagellazione. Certo, il suo cinema aveva colpito il mondo (ottenendo invece scarso riconoscimento in patria) proprio per la profonda commistione tra bisogno d'amore e crudeltà degli istinti. Ed è quanto ci ripete ora, utilizzandola quasi come un mantra, con la struggente canzone che dà il titolo al film.
Ma c'è un momento rivelatore più di altri in questa inusuale e avvincente spoliazione in video. È quando Kim rivede se stesso nella sequenza finale di Primavera, estate, autunno, inverno e primavera ancora. È un monaco buddista che, legatasi alla vita una macina la trascina su un ripido pendio portando con sé una statua del Buddha in meditazione. Giunto sulla cima il monaco può vedere dall'alto la sua casa monastero raccogliersi in preghiera. Il conflitto tra la carne e lo spirito che ha percorso tutto il suo cinema si rivela in questo sguardo su se stesso carico di nostalgia ma anche della consapevolezza che, come ricordava un classico del cinema, "solo chi cade può risorgere".
Dal 1996, anno di "Crocodile", al 2008 Kim Ki-duk aveva girato instancabilmente quindici lungometraggi: dopo il tonfo di "Dream" di lui si sono perse le tracce. Si diceva stesse male e fosse profondamente depresso, a causa dello shock di vedere un'attrice rischiare di rimanere impiccata per girare una scena, sul set del suo ultimo film. Tale trauma l'ha portato a fare un passo indietro per riflettere su quella che era stata fino a quel momento la sua carriera e la sua vita di regista. Per tre anni Kim ha vissuto in una baita dove fa così freddo che l'acqua gela e all'interno dell'abitazione ha montato una tenda per stare più caldo: si aggira nei dintorni coi capelli arruffati, costruisce piccoli arnesi (una macchinetta per il caffè per poter bere continuamente l'espresso), ma non riesce più a scrivere i suoi film. Ha il "blocco del regista".
Dopo i primi minuti, durante i quali osserviamo la sua routine, Kim, sguardo in macchina, comincia a parlare direttamente con lo spettatore spiegandoci - e spiegandosi - cosa sta succedendo e quali sono le sue intenzioni: non riuscendo più a scrivere e non avendo attori a sua disposizione, filmerà se stesso, perché filmare è l'unica cosa che lo rende felice. Inizia quindi l'esperimento di "Arirang": 100 minuti di autoanalisi condita con demistificazioni, auto-celebrazioni, sfoghi contro i compagni di lavoro che l'hanno abbandonato. Per l'intero film c'è solo Kim Ki-duk e la videocamera (una "Mark II") e, "Arirang", titolo preso da una celebre canzone tradizionale coreana, diventa il canto di un autore disperato che grida a squarciagola, se la prende con se stesso, con la società, chiede scusa ai fans che ha deluso, si compiange e si autocritica.
"Arirang" rifugge ai normali schemi del documentario: l'artificio si nota già nelle prime scene, con la disposizione delle luci, i colori arancioni e rossi che contrastano col buio della tende da cui fuoriesce il regista-attore. La presenza dell'occhio filmante falsifica anche le dichiarazioni probabilmente più sincere o, visto che Kim parla a ruota libera, gli permette di contraddirsi, di cambiare argomento in un botta e risposta dissociato, in cui Kim è inquisitore e inquisito, ombra e corpo. Lo stesso protagonista dice - riguardando il girato - che probabilmente ha sentito il bisogno di piangere, mentre cantava la canzone che dà il titolo al film, perché così poteva drammatizzare la sequenza. Il film che sta realizzando può essere qualsiasi cosa, un documentario, un dramma, un film fantastico. E come in molti dei suoi film alla fine c'è una fuga nell'onirico: mentre carrellano le locandine delle sue opere, Kim si costruisce una rivoltella e delle pallottole; sale sulla macchina e va in città; entra ed esce da dei palazzi e dall'esterno sentiamo degli spari, probabilmente rivolti a quelli che dovrebbero essere i suoi nemici...e lascia l'ultima pallottola per se stesso. Finale delirante per la simulazione di un suicidio che con quegli stacchi ellittici che ci tengono fuoricampo rispetto al luogo dove si svolge l'evento, dimostrano comunque la volontà di Kim di controllare la materia filmica e veicolare la "sua visione" su una storia.
"Arirang" nella sua spudoratezza narcisista è un oggetto anomalo difficile da classificare, che merita una particolare attenzione anche solo per il rapporto che ha, e che avrà nel futuro, con la biografia del suo autore. Atto estremo di esorcizzare i demoni della crisi di ispirazione, costruendo un film dal niente e fagocitandolo/annullandolo con la propria sola presenza, il tormentato sedicesimo lungometraggio del regista sudcoreano mostra la fragilità umana e l'instabilità psicologica del personaggio, il quale con la sua solita ingenuità naïf cerca di esplorare un nuovo territorio, ovvero mettere al centro dell'occhio della videocamera se stesso. E anche se, soprattutto con l'ultima parte, si ha poi difficoltà a credere nella totale onestà di Kim, la strada battuta riesce a tratti a sorprendere e a dimostrare che dentro la gabbia di fisime psichiche e spirituali, c'è ancora l'anima di un regista.
Fino a ieri Shinoda Ryota aveva tutto: una consorte, un figlio e un altro romanzo da scrivere dopo aver vinto un premio letterario prestigioso. Poi qualcosa è andato storto, Kyoko gli ha chiesto il divorzio, Shingo lo vede soltanto una volta al mese, il romanzo è rimasto un'intenzione. Per pagare l'assegno mensile alla ex moglie, lavora per un'agenzia investigativa, per dimenticare le indagini ordinarie gioca alle corse, alla lotteria, a qualsiasi cosa possa restituirgli quello che ha perduto. Ma la vita è più complicata di così, bugie, tradimenti, meschinità gli hanno alienato la fiducia degli affetti.
Dopo il licenziamento del padre, una famiglia si ritira in un vecchio cottage di montagna con l'intenzione di farne un albergo. Ma i giorni passano, e di clienti nemmeno l'ombra. Presto, fra i bizzarri membri della famiglia, inizia a serpeggiare il malcontento. Almeno finché non arriva il tanto atteso primo cliente, che però si fa trovare morto la mattina dopo l'arrivo. Spinti dalla necessità di non mandare all'aria il neonato business, la famiglia decide di seppellire il morto. Ma anche ai clienti che successivamente giungono nel cottage tocca la stessa sorte, e seppellire clienti morti diventa routine.