La guerra in Siria è stata copiosamente raccontata e documentata con ogni mezzo audiovisivo, cosa che rende ancora più terribile l'astensionismo del mondo occidentale dall'intervento in soccorso della popolazione, perché le immagini non hanno mai lasciato adito a dubbi e la tragedia si è consumata giornalmente sotto i nostri occhi, fino all'anestesia dell'assuefazione.
Eppure, in questo panorama, Alla mia piccola Sama è a suo modo un caso unico, probabilmente il film più potente che ci sia arrivato, sicuramente il più emblematico, per una pluralità di ragioni, sulle quali primeggia la posizione della videocamera di Waad al Kateab: al centro di un bersaglio annunciato.
Ma c'è di più, perché il film non si configura solo come un potenziale testamento privato e collettivo in fieri, ma anche come il racconto urgente e umanissimo di una crescita personale, accelerata dagli eventi, che trasforma una ragazza in una donna e madre, e una giovane filmaker in una giornalista coraggiosa e rispettata, una voce dalla primissima linea, tutto senza pregiudicare l'intimità del suo obiettivo, inteso nel duplice significato di mezzo e fine.
Al centro di ciò, e dell'immagine e del sentire dello spettatore, c'è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell'orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.
Alla mia piccola Sama è un viaggio intimo nell’esperienza femminile della guerra, una lettera d’amore di una giovane madre a sua figlia. Il film racconta la storia di Waad al-Kateab attraverso gli anni della rivolta di Aleppo, in Siria, quando si innamora, si sposa e dà alla luce Sama, il tutto mentre intorno esplode il conflitto. La sua camera raccoglie storie incredibili di perdita, risate e sopravvivenza mentre Waad si chiede se fuggire o meno dalla città per proteggere la vita di sua figlia, in un momento in cui partire significa abbandonare la lotta per la libertà per la quale ha già sacrificato così tanto.
“Questo non è solo un film per me, è la mia vita. Ho iniziato a raccontare la mia storia personale senza avere un piano, solo filmando le proteste in Siria sul mio cellulare, come facevano tanti altri attivisti. Non avrei mai immaginato dove mi avrebbe portato il mio viaggio. Vivevamo un mix di emozioni: felicità, perdita, amore – e l’orrore i crimini commessi dal regime di Assad contro innocenti che neanche potevamo immaginare. Fin dall’inizio ho capito che ero più affascinata dal catturare storie di vita e umanità, piuttosto che concentrarmi sulla morte e la distruzione. E come donna nella parte conservatrice di Aleppo, sono stata in grado di accedere alle esperienze di donne e bambini, tradizionalmente vietate agli uomini. Questo mi ha permesso di mostrare la realtà invisibile dei siriani, cercando di vivere una vita normale in mezzo alla nostra battaglia per la libertà. Allo stesso tempo, ho continuato a vivere la mia vita. Mi sono sposata e ho avuto una figlia. Mi sono ritrovata a cercare di bilanciare diversi ruoli: Waad madre, attivista, giornalista, cittadina e regista”.
“A volte piangevamo sangue” – dice la regista e voce narrante di “Alla mia piccola Sama” Waad-al-Kateab , al culmine estremo di una resistenza folle e inutile ad Aleppo sotto assedio. Ed estremo e disarmante, è questo documentario che supera ogni limite dei documentari, composto, montando in due ore di tensione altissima, di sgomento assoluto, i materiali che la giovane giornalista e film maker ha realizzato da dentro l’assedio di Aleppo e prima e dopo.
Nessun osservatore esterno avrebbe avuto quel punto di vista, a nessuno sarebbe riuscito di superare i limiti del visibile in questo modo. Tutto quello che la giovane Waad ha filmato della guerra, a fianco di suo marito medico, nell’unico ospedale rimasto sotto i bombardamenti, non è orrore, ma vita pura, purissima.
Forse uno dei documentari più premiati degli ultimi anni. Waad-Al-Kateab rende visibile tutto, sfidando il visibile stesso. Non è solo un documentario, ma qualcosa di più. Rompe i limiti di quello che una volta i critici avrebbero chiamato lo “specifico filmico”. Oltre che rendere depotenziato ogni reportage dall’esterno.
Il film è uno schiaffo, Waad filma tutto e non ci risparmia niente, ma è giusto così. Non voltate lo sguardo mentre lo vedrete. Le scene più ansiogene e pure incredibili sono quelle dei bombardamenti sull’ospedale e la corsa di Waad nella stanza dove ha lasciato Sama, la trova che gioca sorride, fa i suoi mugolii da bambina normale di due anni. E tutto improvvisamente anche per noi cambia. Si sentono le bombe fuori, Sama sorride. È visibile, ma sembra incredibile. Tutto ciò viene mostrato dall’interno, nel quotidiano, la vita familiare nonostante tutto, la piccola comunità di medici e infermieri che dà vita miracolosamente a un ospedale (col supporto di Medici Senza Frontiere).
Waad, Hamza e la figlia Sama non sono “oggetto” di un documentario storico (o di una notizia) loro sono la notizia e la Storia che prende la parola e si racconta. Narrazione, diario, testimonianza, documentazione, tutto insieme.
Davanti a una madre e un bambino morti, Waad dice “Detesto confessarlo, ma invidio la madre di quel ragazzino. Almeno è morta prima di dover seppellire suo figlio”